Chi legge i miei libri lo ha notato.
Ne Le Ombre di Whitechapel, Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio, il Male non si presenta quasi mai con un nome proprio.
Non lo chiamo per nome.
Non lo voglio chiamare.
Eppure, ha un’identità.
La do attraverso un titolo. Un epiteto. Un’etichetta che non descrive… ma evoca.
Perché non uso nomi classici?
Perché un nome umano normalizza.
Dà contorni. Dà origine. Dà fine.
Il Viaggiatore, invece, non ha tempo.
Non sai se è uomo, spirito, dio o altro.
Sai solo che arriva, passa, osserva.
Il Carnefice non ha volto.
È una funzione. È un rituale che si compie.
Non agisce per odio. Agisce perché deve.
E il Traditore… non ha nemmeno bisogno di agire.
Gli basta esistere. È colui che ha aperto la porta. Anche se dice di non ricordare.
I nomi raccontano senza spiegare
Mi affascina l’idea di raccontare l’orrore senza bisogno di spiegare tutto.
Un titolo è come una cicatrice: dice che qualcosa è accaduto, ma non ti mostra il momento esatto.
Sta al lettore riempire quel vuoto.
Ed è proprio in quel vuoto che nasce la tensione.
È il lettore a decidere chi è chi
Molti lettori mi scrivono teorie.
“Il Viaggiatore è il Diavolo?”
“Il Traditore è Quinn stesso?”
“Il Carnefice… è solo un uomo?”
E la mia risposta è sempre la stessa: siete voi a dargli un volto.
Io fornisco le ombre.
Voi ci vedete dentro.
E forse, in fondo, è proprio questo il senso dell’Archivio Blackwood: non fornire risposte, ma mettere sotto chiave le domande giuste.
Le Ombre di Whitechapel
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Il Vangelo delle Ombre
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