Quando ho cominciato a scrivere Il Vangelo delle Ombre, mi sono reso conto che, per parlare veramente del Male, dovevo parlare anche della mente.
Non del mostro fuori, ma di quello dentro.
E in una Londra del 1888, chi si occupava della mente umana era l’alienista.
Chi era davvero l’alienista?
Nel XIX secolo, la parola “alienista” derivava dal concetto di “alienazione mentale”: chi perdeva il senno era considerato alienato da sé stesso.
L’alienista era il medico incaricato di studiare, contenere — e a volte correggere — questa separazione.
Non era ancora uno psichiatra, almeno non nel senso moderno.
Era una figura ambigua, spesso chiusa tra pareti di manicomi, al confine tra il medico e il carceriere, tra lo studioso e il giudice.
E in molti casi, lui stesso viveva in bilico tra lucidità e ossessione.
Trattamento o tortura?
Nei manicomi vittoriani, “curare” poteva voler dire qualsiasi cosa:
tenere il paziente immerso per ore in vasche ghiacciate
incatenarlo al letto
costringerlo a subire il silenzio assoluto per settimane
o, al contrario, sovraccaricarlo di stimoli “per farlo crollare”
E poi c’erano gli strumenti più raffinati: ipnosi, morfina, disegni interpretativi, magnetismo.
L’alienista osservava tutto. E prendeva nota.
Nelle cartelle cliniche dell’epoca troviamo diagnosi come:
Melanconia isterica con tendenza al misticismo”
oppure
“Visioni ricorrenti legate alla colpa religiosa”
Mi è bastato leggere queste frasi per sapere che Padre Marcus Quinn e i suoi tormenti interiori non erano invenzioni. Solo traslazioni.
L’alienista nella mia narrativa
Nell’Archivio Blackwood, l’alienista non è mai un semplice medico.
È spesso il primo a sospettare il soprannaturale, ma l’ultimo ad ammetterlo.
A volte viene chiamato in causa da Scotland Yard quando il crimine è inspiegabile.
Altre volte… è lui stesso a diventare un caso. Ne Il Carnefice del Silenzio, l’alienista troverà posto per un caso molto particolare…
Ho immaginato che i dossier dell’alienista si mescolassero con i fascicoli della polizia.
Che un detective come Blackwood dovesse imparare a leggerli non come diagnosi, ma come segnali.
E che a volte — nei casi più oscuri — l’unico modo per guarire una mente…
fosse isolarla. O dimenticarla.
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