A volte scrivo non per ricordare, ma per non impazzire.”
— annotazione marginale, archivio privato dell’Ispettore Blackwood
Tra le pagine consumate dall’inchiostro e dal silenzio, esiste un archivio che nessun protocollo riconosce, nessuna procedura ufficiale contempla.
È lì che Edgar Blackwood affida ciò che non può essere detto, ciò che resta quando l’indagine si ferma e i fantasmi rimangono.
Un diario. Una lettera mai spedita. Una frase scritta di notte sul retro di un biglietto d’indagine.
L’Archivio Blackwood non è solo una raccolta di casi. È anche un luogo interiore, fatto di tracce, sospetti, sogni, rimorsi e segreti. Non tutto ciò che viene scoperto può essere spiegato. Non tutto ciò che si combatte ha un nome.
Un frammento (inedito):
Questa notte ho sentito tre passi sulle scale. Il pavimento della canonica era freddo, eppure mi sembrava di percepire un respiro nell’aria, come se qualcosa trattenesse fiato.
Ho acceso la candela, ma nessuno era lì.
Soltanto un segno tracciato sul muro. Lo stesso che trovammo a Limehouse. Lo stesso che Declan disegnava senza accorgersene, nei suoi appunti.
Mi sto perdendo, oppure mi stanno osservando.”
Queste note, frammenti non ordinati, costituiscono una dimensione parallela ai romanzi: non raccontano i fatti, ma l’inquietudine. Non chiariscono i casi, ma lasciano filtrare le crepe dell’uomo dietro l’ispettore.
Per ora restano inedite, come una corrente sotterranea che attraversa la saga.
Ma forse, un giorno, emergeranno alla luce.
Con le loro macchie, le contraddizioni, e il peso dell’oscurità.
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