Nel costruire il primo volume Le Ombre di Whitechapel ci si è trovati davanti a una domanda antica quanto la narrativa stessa: contro cosa combatte davvero il nostro protagonista?
Non bastava un assassino. Non bastava un rituale.
Occorreva un’ombra più grande, più profonda. Qualcosa che fosse insieme reale e irreale, concreta ma avvolta nel mistero. Un male che non si limitasse a colpire il corpo, ma che potesse insinuarsi nelle pieghe della mente e nella memoria stessa di una civiltà.
È qui che nasce la scelta: evocare Dracula.
Non il Dracula da manuale, non il mostro da cinema, ma il simbolo di ciò che l’Ottocento temeva di più: la decadenza mascherata da nobiltà, la superstizione che ritorna, la contaminazione dell’invisibile.
Dracula diventa, in questo contesto, un’eco. Non serve vederlo per sapere che c’è. Come un sussurro nei corridoi del potere o una goccia d’inchiostro nero versata su un documento classificato.
In Le Ombre di Whitechapel, primo dei due dossier raccolti nel volume L’Archivio Blackwood Volume I – Le Origini, la sua presenza è un’influenza, un’infezione sotterranea. L’ispettore Blackwood non insegue solo degli indizi: insegue un pensiero antico, una minaccia senza volto che si riflette nei simboli, nei culti, nei riti.
Ecco perché Dracula.
Perché più di ogni altro rappresenta il nemico definitivo di un uomo razionale.
Perché sopravvive ai secoli, muta, si adatta e torna.
E perché ogni archivio, prima o poi, contiene qualcosa che sarebbe dovuto restare sepolto.
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