
Benvenuti nella sezione più oscura del mio sito.
Qui, dove la luce fatica a entrare e la carta odora di nebbia e silenzi, troverete un racconto inedito ogni settimana: storie gotiche, visioni, piccoli frammenti di un mondo che respira tra le pieghe dell’Archivio Blackwood e oltre.
Non sono semplici esercizi di stile.
Sono stanze chiuse, aperte per un istante e subito richiuse.
Sono ciò che rimane quando un autore tenta di trattenere un’ombra sulla pagina… e a volte ci riesce.
Ogni racconto è pensato per essere letto in pochi minuti, ma per restare molto più a lungo.
Una Lanterna nella nebbia, un corridoio che non dovrebbe esistere, un volto intravisto nel riflesso: la Londra gotica che vivo nei miei romanzi prende forma qui, in episodi brevi, accessibili a tutti ma attraversati da una vena di inquietudine.
Un racconto a settimana
Ogni settimana verrà pubblicato un racconto nuovo, completamente inedito.
Gli episodi spazieranno tra:
- visioni dell’Archivio Blackwood;
- scene gotiche autonome, scollegate dai romanzi ma immerse nella stessa atmosfera;
- piccole leggende urbane vittoriane;
- racconti dark ambientati in orfanotrofi, vecchi manicomi, biblioteche polverose;
- frammenti narrativi che giocano con il mistero e l’oscurità.
Un appuntamento fisso, per lettori che vogliono entrare — anche solo per pochi minuti — in una Londra che non esiste, ma potrebbe farlo.
Diritti e tutela delle opere
Tutti i racconti pubblicati in questa sezione sono opere originali di Claudio Bertolotti,
registrati e tutelati secondo normativa sul diritto d’autore.
È vietata qualsiasi riproduzione totale o parziale, inclusa la pubblicazione su social, blog, riviste o gruppi senza mio consenso scritto.
La condivisione del link a questa pagina è invece gradita e incoraggiata.
Perché questa sezione?
Perché leggere è un rituale.
E la scrittura lo è ancora di più.
Questa pagina nasce per dare ai lettori uno spazio dedicato, intimo, dove trovare ogni settimana qualcosa di nuovo, qualcosa che non richiederà un libro intero, ma che parlerà lo stesso linguaggio:
la lingua dell’ombra.
LA CASA CHE NON RESPIRAVA PIÙ
(Racconto inedito – © Claudio Bertolotti. Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione totale o parziale.)
La nebbia di Londra era così densa quella notte che pareva un animale. Non una semplice foschia, ma qualcosa che strisciava lungo i marciapiedi, cercando fessure nei muri, annusando i passi dei pochi temerari che osavano avventurarsi fuori. Edgar Blackwood non era tra questi: non stava lì per coraggio, né per imprudenza. Era stato chiamato.
E quando l’Archivio chiama, qualcosa è già andato storto.
La casa al numero 27 di Weeping Lane era più che abbandonata: sembrava svuotata, come se anni di solitudine l’avessero erosa dall’interno. Le finestre non erano semplicemente rotte: erano occhi spenti, incapaci di riflettere anche la luce del lampione davanti all’ingresso. Di quella casa si diceva tutto e il contrario di tutto: che fosse caduta a pezzi per incuria, che fosse stata teatro di qualcosa di innominabile, che nessuno, proprio nessuno, avesse mai abitato realmente lì dentro.
Blackwood sollevò il bavero del cappotto, più per abitudine che per freddo. La notte di dicembre gli pungeva la pelle come spilli, ma lui era abituato. Ciò che lo irritava davvero era quella strana sensazione: un peso dietro lo sterno, come se qualcuno stesse trattenendo il respiro proprio accanto a lui.
Spinse la porta.
Cigolò, come se si lamentasse di essere disturbata. L’interno era peggio di quanto si aspettasse: un corridoio stretto, soffocante, impregnato di un odore stantio. Non muffa… qualcosa di più sottile. Odore di legno molto vecchio, ma anche di pagine bagnate, come se decine di libri fossero stati lasciati marcire sul pavimento.
Una lanterna oscillava tra le dita di Blackwood, proiettando ombre che sembravano muoversi prima ancora che lui si spostasse. Fece un passo. Il pavimento scricchiolò. Fece il secondo.
Scricchiolò di nuovo, ma… non nello stesso punto. Come se qualcosa—o qualcuno—avesse messo il piede un attimo dopo di lui.
Blackwood si fermò. Non respirò per un istante, ascoltando. La casa sembrava immobile. Troppo immobile. Una casa abbandonata ha dei rumori suoi: il vento che filtra, le assi che cedono, i muri che si assestano nel silenzio. Questa, invece, non faceva nulla. Era come se trattenesse ogni possibile suono.
Entrò nella sala principale: un grande ambiente vuoto, tranne un tavolo storto al centro e una sedia rovesciata. Fin qui tutto prevedibile. Ma ciò che lo bloccò fu l’oggetto sopra il tavolo.
Una tazza di porcellana.
Pulita.
Intatta.
Colma.
Non di tè. Di latte. E ancora tiepido.
Il cuore di Blackwood rallentò. Non accelerò: rallentò, come se la casa lo stesse costringendo a sincronizzarsi con un ritmo diverso.
Avanzò, alzando la lanterna, e vide un’ombra scivolare lungo la parete opposta. Non era la sua. Non combaciava con nessun angolo, nessuna fonte di luce. Era una sagoma irrimediabilmente storta, come se fosse appesa al muro da fili invisibili.
«Chi c’è?» domandò, più per protocollo che per reale aspettativa. La casa rispose con un rumore sordo, venuto dal piano superiore.
Un passo. Lentissimo. Pesante.
Blackwood salì le scale solo quando quel passo cessò. Non voleva inseguire: voleva capire. Il secondo piano era buio come una miniera abbandonata. Nella stanza in fondo, una finestra sbatteva piano, nonostante fuori non tirasse un filo di vento. La sua lanterna illuminò qualcosa sul pavimento: una linea tracciata con gesso bianco.
Una linea perfetta. Dritta. Indirizzata verso l’armadio.
E sull’anta dell’armadio… Una frase. Scritta con le dita, non con un gessetto.
Non entrare quando smetto di respirare.
Blackwood posò la mano sull’anta. Era gelida. Non il freddo dell’inverno: il freddo del marmo. Dietro quell’anta non c’era un mostro, né un fantasma. Non c’era alcuna creatura urlante pronta a saltargli addosso. C’era qualcosa di molto più inquietante.
Il vuoto.
Un vuoto profondo, come se quel mobile contenesse un angolo di mondo strappato via. Nessun odore. Nessuna traccia. Nessun suono.
La casa, allora, fece qualcosa che non avrebbe dovuto fare. Inspirò.
Blackwood sentì l’aria spostarsi, un movimento quasi impercettibile ma inevitabile. Capì, allora, ciò che altri non avevano capito.
Quella casa non era abbandonata. Non era infestata. Non era pericolosa.
Era affamata.
E dopo anni di attesa, stava finalmente respirando di nuovo.
(Racconto inedito – © Claudio Bertolotti. Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione totale o parziale.)
LA VOCE SOTTO IL PONTE
La notte gravava su Southwark come una promessa infranta. La nebbia scivolava lenta lungo i vicoli, impigliandosi ai lampioni a gas e deformando ogni cosa in sagome incerte. L’ispettore Edgar Blackwood avanzava con il bavero del cappotto sollevato e la mano destra chiusa attorno al manico della lanterna. Nonostante fosse spenta, quella luce pareva sempre pronta a risvegliarsi quando l’oscurità diventava troppo curiosa.
Era stato un pescatore a chiamarli: «C’è qualcuno che parla sotto il ponte… ma non c’è nessuno».
Blackwood non aveva bisogno di altro. Le anomalie avevano sempre un modo tutto loro di scegliere il luogo e il momento.
Si fermò sotto le arcate del Southwark Bridge. Lì, il Tamigi era un animale in dormiveglia: mugugni, gorgoglii, spire di vapore che salivano e svanivano. Blackwood ascoltò, trattenendo il respiro. Per un istante udì soltanto l’acqua. Poi arrivò il sussurro.
Edgar… torna indietro…»
La voce sembrava provenire da una fenditura tra le pietre, sottile come un graffio, ma pulsante di una presenza troppo densa per essere un’eco. Blackwood posò la mano sul muro umido. Ciottoli gelidi, muffa, un odore di ferro. Il sussurro tornò, più vicino, più affamato.
Non dovevi venire qui…»
Il cuore gli diede un solo colpo forte, poi tornò regolare. Il panico, con lui, non aveva mai fatto molta strada.
«Mostrati» mormorò. La sua voce rimbalzò sotto la volta come un comando a una creatura riluttante.
La luce della lanterna si accese da sola. Una fiamma sottile, quasi timida, tremolò dietro il vetro. Blackwood non mosse un dito. Era il segnale che attendeva: ciò che l’aveva chiamato non era un uomo, né un inganno del fiume.
Il sussurro si fece coltello.
Non puoi fermarlo… è già qui.»
Blackwood avvertì un improvviso gelo alle spalle. Una figura emerse dalla nebbia, alta, curva, bagnata come se fosse appena risalita dal fondo del Tamigi. Il volto era nascosto dall’ombra, ma gli occhi no: due punti lattiginosi, spenti, che sembravano ricordarlo.
La lanterna proiettò un cerchio di luce pallida sull’acqua. Lì, riflessa tra le increspature, appariva una terza figura: identica a quella davanti a lui, ma immobile, come un cadavere sospeso nel buio liquido.
La voce parlò ancora, ma non dalla riva. Non dalla nebbia.
Dal riflesso.
Edgar… non è me che cerchi. È ciò che mi ha mandato.»
Prima che potesse reagire, l’acqua esplose in un vortice di ombre.
E Blackwood capì che il ponte non era il luogo dell’incontro.
Era l’ingresso.
(Racconto inedito – © Claudio Bertolotti. Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione totale o parziale.)
IL SEGNO SUL SOFFITTO
La stanza era troppo silenziosa per essere una stanza abitata. L’ispettore Edgar Blackwood rimase sulla soglia, il sigaro economico spento tra le dita. Lo rigirava lentamente, mentre la mano libera si apriva e chiudeva in un tic involontario. Non era nervosismo: era attenzione. Quel tipo di attenzione che precede sempre qualcosa di sbagliato.
«Non c’è odore di gas. Né di muffa» disse il sergente Monroe, osservando l’ambiente con occhi giovani ma già stanchi. «Eppure… sembra che l’aria sia stata usata.»
Padre Marcus Quinn avanzò senza rispondere. Il suo abito scuro era semplice, quasi anonimo, ma portava con sé un odore leggero di incenso e cenere fredda. Alzò lo sguardo verso il soffitto.
Il segno era lì.
Un simbolo inciso direttamente nell’intonaco, tracciato come con un’unghia o qualcosa di ancora più duro. Non sanguinava. Non brillava. Ma sembrava recente, come se la stanza lo stesse ancora ricordando. «Non è un simbolo di evocazione» disse Quinn. «È un marchio di passaggio.»
Blackwood sollevò gli occhi. «Passaggio di cosa.»
Il sacerdote inspirò lentamente. «Di volontà.»
Un colpo secco provenne dal corridoio. Monroe si voltò di scatto, portando la mano alla fondina. «Qualcuno è entrato.»
«No» rispose Blackwood. «Qualcuno è rimasto.» Il tic alla mano aumentò, le dita che si chiudevano e riaprivano come a contare qualcosa di invisibile. Accese il sigaro. Il fumo acre si diffuse, spezzando la staticità dell’aria. Per un istante, il simbolo sul soffitto parve vibrare.
Quinn aprì il breviario. Non lo lesse. Lo usò come un peso, come un’àncora. «Chiunque abbia tracciato quel segno non voleva invocare. Voleva farsi notare.»
Dal muro opposto giunse un sussurro, basso, raschiante, come parole pronunciate senza lingua. Monroe fece un passo indietro. «Io… io non capisco cosa stia dicendo.»
«Meglio così» mormorò Quinn.
Il sussurro aumentò. Il simbolo iniziò a sgretolarsi, pezzi di intonaco caddero a terra come neve sporca. Dal soffitto si formò un’ombra che non seguiva la luce. Un volto senza lineamenti si piegò verso di loro.
Blackwood avanzò di un passo. Il sigaro tremò appena. «Non sei il primo a cercare attenzione. E non sarai l’ultimo.»
L’ombra reagì, dilatandosi, ma Quinn fu più rapido. Tracciò un segno nell’aria con due dita, non un gesto ampio, ma preciso. «Qui non resti.» Il sussurro divenne un urlo soffocato. L’ombra collassò su sé stessa, risucchiata nel punto da cui era emersa. Il simbolo sul soffitto si spense del tutto.
Il silenzio tornò. Un silenzio diverso.
Monroe espirò lentamente. «È … finita?»
Quinn chiuse il breviario. «No. Era solo un messaggio.»
Blackwood schiacciò il sigaro a terra. Il tic alla mano si fermò. «Allora risponderemo.»
LE CATENE DI NATALE
(Racconto inedito – © Claudio Bertolotti. Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione totale o parziale.)
La neve cadeva su Whitechapel in fiocchi irregolari, già sporchi prima ancora di toccare terra. Edgar Blackwood avanzava lentamente, il bavero del cappotto alzato, un sigaro economico acceso all’angolo della bocca. Il fumo si mescolava alla nebbia, acre e rassicurante. La mano sinistra, quella libera, si apriva e si chiudeva in un tic nervoso che tradiva più concentrazione che paura.
Accanto a lui, il sergente Declan O’Connor camminava in silenzio. Aveva imparato a riconoscere quel ritmo delle dita: quando compariva, significava che qualcosa li stava osservando. «Natale» disse O’Connor, con un sorriso stanco. «Le famiglie chiuse in casa, i bambini a dormire. E noi a inseguire voci.»
Blackwood non rispose subito. Si fermò sotto un lampione a gas, la luce tremolante che disegnava ombre innaturali sul selciato. «Le voci parlano di catene. E di zoccoli.»
O’Connor sospirò. «Sempre meglio dei coltelli.»
Il rumore arrivò alle loro spalle: un tintinnio metallico, lento, deliberato. Non il suono di un uomo che cammina, ma di qualcosa che striscia trascinando il proprio peso. Blackwood schiacciò il sigaro contro il muro, lo lasciò cadere e avanzò di un passo. Le dita della mano si chiusero, poi si aprirono di nuovo.
Dalla nebbia emerse una figura alta, troppo alta per essere umana. Le corna ricurve spuntavano da un volto bestiale, coperto di pelo scuro e incrostato di ghiaccio. Catene avvolgevano il torso e le gambe, e a ogni movimento producevano un suono secco, punitivo. Gli zoccoli affondavano nella neve lasciando impronte nere.
Il Krampus inclinò la testa, come se stesse studiando due insetti curiosi.
O’Connor sentì la gola seccarsi. «Allora… non era una storia per spaventare i bambini.»
«No» rispose Blackwood con calma. «Era un avvertimento.»
La creatura avanzò di un passo. Il suo respiro usciva in nuvole dense, cariche di un odore di fieno marcio e stalla. Dai denti sporgeva una lingua scura, umida. Gli occhi, però, non erano furiosi. Erano antichi. E stanchi.
«Non sei qui per noi» disse Blackwood, rompendo il silenzio. «Sei qui per qualcosa che ti è stato tolto.»
Il Krampus ringhiò piano, un suono profondo che fece vibrare l’aria. Poi alzò una mano artigliata e indicò una casa poco distante: una finestra illuminata, tende tirate male. All’interno, l’ombra di un bambino si muoveva inquieta.
O’Connor fece un mezzo passo avanti. «Blackwood…»
La mano dell’ispettore si aprì e si chiuse una volta sola. «Quel bambino non è colpevole.»
Il Krampus sembrò irrigidirsi. Le catene tintinnarono più forte, come se qualcosa le tirasse dall’interno. Per un attimo la bestia parve sul punto di avanzare, di ignorare quelle parole.
Poi Blackwood parlò ancora, a voce più bassa. «Se lo tocchi, non tornerai nell’ombra stanotte.»
Non era una minaccia urlata. Era una constatazione.
La creatura fissò l’uomo a lungo. Il vento soffiò più forte, sollevando la neve. Infine il Krampus emise un verso sordo, a metà tra un sospiro e un lamento. Abbassò la mano, fece un passo indietro e si voltò. Le catene strisciarono sul selciato mentre la figura si dissolveva nella nebbia, lasciando solo impronte nere che si riempirono lentamente di neve fresca.
O’Connor espirò. «È… finita?»
Blackwood accese un altro sigaro. Il tic alla mano si placò. «Per stanotte.» Si voltò verso la casa illuminata. Dietro le tende, l’ombra del bambino si era fermata. «Andiamo» disse. «A Natale, anche i mostri sanno quando è il momento di tornare nel buio.»